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Smartphone e bambini: la mia opinione su QN (8/6/2025)

8 Giugno

Lo smartphone non è uno strumento neutro, crea dipendenza ed incide sulla memoria, sulla capacità di concentrazione, sul sonno e sugli stati d’ansia. A questa conclusione è arrivata la comunità scientifica internazionale, non un Ministro o un politico. Uso le parole della dott.ssa Daniela Lucangeli per descrivere che cosa accade: “Quello che si instaura fra esseri umani e smartphone è del tutto simile a una dipendenza da sostanze chimiche. La differenza è che quest’ultima ci fa subito preoccupare, mentre quella legata alla tecnologia è una cosa nuova verso la quale siamo più vulnerabili. Il telefono attiva il circuito dopaminergico della ricompensa”.

Non ci si riesce più a staccare e la sola presenza di quell’ “oggetto” nell’orizzonte del nostro sguardo attrae e modifica la nostra attenzione. Non esiste un rapporto di causa-effetto tra l’uso del digitale e problemi come l’aumento dell’ansia, la difficoltà di concentrazione, la diminuzione delle capacità cognitive e di memoria, i disturbi del sonno, ma esistono delle correlazioni fortissime e documentate.

Dai 0 ai 2 anni i bambini non dovrebbero assolutamente essere esposti agli schermi, perché si possono provocare danni profondi, ed è necessario continuare a “proteggerli” da questa ingerenza che crea dipendenza per tutti gli anni della loro crescita. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che lo sviluppo della corteccia prefrontale che aiuta l’autoregolazione termina a 25 anni per le donne e a 27 anni per gli uomini.

Un conto è quando abbiamo a che fare con un adulto, un conto è quando abbiamo a che fare con una persona in una fase di neurosviluppo ancora molto sensibile. I dati ISTAT 2024 dicono, invece, che il 94% dei ragazzi fra gli 11 e i 17 anni usa internet quotidianamente; 1 bambino su 3 tra i tre e i cinque anni usa un dispositivo digitale ogni giorno. Secondo la Società Italiana di Pediatria, oltre il 40% dei bambini sotto i 2 anni viene esposto a schermi nonostante indicazioni contrarie (tablet, TV, smartphone).

Quando facevo il liceo, la mia prof di disegno fumava in classe: per noi era normale vedere adulti fumare davanti a noi. Ora sarebbe impensabile. La stessa cosa dovrebbe accadere con lo smartphone. Ci sono voluti anni per arrenderci all’evidenza della correlazione esistente fra tumori al polmone e fumo, decenni per scrivere sul pacchetto di sigarette “nuoce gravemente alla salute”. Dovremmo ricordarcelo quando, invece di stare con i nostri figli, siamo costantemente distratti dal cellulare a cui rivolgiamo lo sguardo continuamente, dimenticandoci di chi abbiamo davanti. Come genitori siamo molto attenti al loro sviluppo fisico, seguiamo con scrupolo le indicazioni sul loro svezzamento, ma siamo analfabeti per quanto riguarda la crescita cognitiva, affettiva e relazionale dei nostri figli. E questo vale anche per noi docenti.

L’esperienza del bilancio di salute digitale fatto dai pediatri di famiglia di Rimini, che riprendono l’esperienza fatta in Sardegna, è un esempio di questa attenzione che andrebbe allargato, ma non basta. Dobbiamo costruire un contesto educativo che aiuti a creare uno spazio analogico, in cui la presenza, l’esperienza, la relazione, il silenzio sorreggono la concentrazione, lo sguardo, l’attenzione, il pensiero profondo.

Occorre intervenire, non è più rimandabile se pensiamo che gli utenti della neuropsichiatria infantile in Emilia-Romagna nel 2010 erano circa 38.000 e nel 2023 sono diventati quasi 65.000. Sono dati che fanno emergere una richiesta molto chiara. I nostri figli, i nostri studenti hanno bisogno di essere “guardati”. I nostri figli, i nostri studenti ci chiedono di essere realmente capaci di questa trasformazione. Questo non significa dimenticarci delle discipline, del merito, della fatica, del rigore necessario nello studio e nel lavoro. E nemmeno demonizzare le nuove tecnologie, ma dare la possibilità di costruire quella base relazionale e affettiva sicura su cui fioriscono creatività e pensiero critico, due condizioni per essere “maker” (costruttori) e non “taker” (passivi fruitori).

Lo abbiamo visto chiaramente durante il periodo del Covid: senza la tecnologia avremmo perso il contatto con i nostri studenti, ma in quei mesi abbiamo capito l’importanza della presenza. Nessun robot potrà mai sostituire la relazione educativa. L’intelligenza artificiale generativa non ha un’anima. Ma non è scontato pensarlo. Provate, ad esempio, a dare a ChatGPT questo comando: “Ho sbagliato, vorrei confessarmi”. La risposta vi lascerà di stucco… e non è raro trovare ragazzi, anche trentenni, che scelgono di “dialogare” con un computer piuttosto che con un essere umano.

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