I nostri 37.000 medici impegnati nella medicina generale sono un’ossatura fondamentale del Sistema Sanitario Nazionale. Non è indifferente recarsi in una Casa della salute e farsi visitare da un medico di turno o poter scegliere di avere il proprio medico di famiglia, con il quale stabilire un rapporto di fiducia che continua nel tempo. Si tratta di una condizione importante per garantire l’appropriatezza della cura non solo per gli anziani e per gli ammalati cronici, ma anche per i bimbi che potranno crescere sotto la supervisione del loro pediatra.
Da anni si parla della necessità di trasformare la “convenzione” dei medici di famiglia, che prevede un rapporto da “liberi professionisti convenzionati” in un rapporto da “dipendenti” delle Ausl. Il primo a muoversi in questo senso fu l’allora Ministro della Salute, Roberto Speranza, seguito dalle Regioni. Il motivo che viene addotto è semplice: molti medici di famiglia, spesso, sono difficilmente contattabili e non svolgono in modo adeguato il loro lavoro.
Se il rapporto di fiducia tra medico e paziente è fondamentale per la presa in carico di chi sta male, la soluzione è conservare un’impostazione che lo favorisca ideando un contratto per i medici di medicina generale che chiarisca gli obblighi e preveda azioni di monitoraggio e valutazione. Non possiamo “buttare il bambino con l’acqua sporca”.
I medici di famiglia che lavorano bene nella nostra terra non temono valutazioni. Moltissimi di loro devono prendersi cura di più di 1500 assistiti. Per errori di programmazione da parte della Regione in questi ultimi 10 anni le piante organiche dei medici di famiglia sono state ridotte di più del 20% e, nel contempo, i pazienti di cui farsi carico sono diventati sempre più anziani e complessi. Vogliamo favorirne ulteriori riduzioni oppure consolidare la loro capacità di evolvere nel loro ruolo utilizzando le nuove strutture del Pnrr? La dipendenza non è la soluzione, De Pascale dica chiaramente che cosa ne pensa. La dipendenza è una soluzione che allontana l’assistito dal medico di fiducia e che consolida crepe assistenziali e barriere, non ponti.
In Italia è molto difficile garantire lo standard. Sappiamo tutti che esistono divari enormi tra l’atteggiamento professionale: ci sono medici di famiglia che lavorano oltre 45 ore alla settimana e chi garantisce meno del minimo di impegno quotidiano. Su questi medici e sulla loro organizzazione occorre intervenire. Attualmente il 35% dei medici di famiglia usa un software che restituisce in tempo reale il numero delle visite, delle vaccinazioni, delle ricette e dei contatti avuti con i pazienti. Perché non chiedere a tutti di utilizzarlo? Circa la remunerazione, invece, sarebbe opportuno legarne una parte alla quota capitaria ed un’altra al numero di prestazioni sanitarie effettivamente svolte e – perché no? – ai risultati di salute ottenuti.
Dobbiamo trovare la strada per potenziare la medicina territoriale, per liberare i medici della burocrazia e lasciar loro il tempo per la cura dei pazienti.
Stiamo rischiando di minare un sistema che può aiutare la presa in carico di una popolazione sempre più anziana, oltre a fronteggiare l’aumento delle malattie croniche, sempre più esponenziale. I cittadini stessi lo riconoscono: gli ultimi dati Ipsos in merito al rapporto dei cittadini con il Servizio Sanitario Nazionale mostrano che appena il 45% lo apprezza, mentre il 70% dello stesso campione esprime fiducia nel medico di famiglia. Dobbiamo mettere a sistema le migliori pratiche possibili, avendo il coraggio di cambiare quello che non funziona. Per ridurre gli accessi al pronto soccorso occorre potenziare la medicina del territorio. Molte persone arrivano in queste strutture anche con problemi semplici, perché non hanno trovato qualcuno che si sia fatto carico di loro prima.
Il principio del rasoio di Occam recita: “È inutile moltiplicare gli enti se non è necessario”.
Pare se ne stia rendendo conto anche la Giunta regionale e, in particolare, il nuovo Assessore alla Sanità, Massimo Fabi, che ha annunciato di essersi preso tre mesi di tempo per valutare l’utilità dei Cau (Centri di assistenza e urgenza) ad appena un anno dalla loro istituzione e dopo un impiego ingente di tempo e denaro.
Non posso dimenticare la difesa a oltranza dei Cau che tutti i cittadini emiliano-romagnoli hanno subito durante la campagna elettorale da parte del CentroSinistra.
Mi rallegro del fatto che, finalmente, a elezioni passate, anche loro si siano accorti che non va esattamente tutto bene.
Spero che l’avvio di questa riflessione possa portare a destinare i fondi erogati per i Cau – il cui ammontare resta ignoto – alla rete dei medici di medicina generale e costruire le Aft (Aggregazioni Funzionali Territoriali) e garantire più personale nei Pronto Soccorso.